Parla con lui: PCOS e relazioni di coppia

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 Si sa, essere “malate” significa perdere sicurezza in se stesse, figuriamoci quando si tratta di disturbi che hanno un forte impatto sull’aspetto fisico. Quando sentiamo messa in discussione ed intaccata la nostra femminilità, come fa la PCOS.

E la vita di coppia ne fa le spese non di rado rovinosamente. Qualche donna si chiude, qualcuna diventa estremamente dipendente dal partner e qualcuna, invece, diventa molto aggressiva e respingente. Può non essere semplice ritrovare serenità ed equilibrio: non ci sono ricette ma qualche riflessione ci può aiutare.

Se siamo oneste con noi stesse, non faremo fatica a riconoscere che nei confronti dei nostri partner abbiamo spesso la pretesa di essere capite al volo. Non solo diamo per scontato che “debbano” sapere come ci sentiamo quando abbiamo dei problemi, ma proprio pretendiamo che si immedesimino nelle nostre emozioni. E soffriamo terribilmente quando ci accorgiamo che magari ci stanno vicino ma non riescono a comprendere le sfumature e le implicazioni psicologiche della situazione difficile che stiamo attraversando. Soffriamo se non riescono a rassicurarci con le parole, se si stupiscono se ci disperiamo perché non ci sentiamo belle, se perdono la pazienza di fronte ai cambiamenti di umore repentini…  

Spendiamo fiumi di parole con le amiche per esprimere quello che proviamo ma verso il partner siamo implacabili nel chiedere un’intuitiva e profonda, assoluta comprensione “a priori”. “Ma come fa a non capire di cosa ho bisogno?”

Ci lamentiamo con risentimento e sconforto: fino ad esplodere urlando accuse, ancora più rabbiose nel constatare che lui casca dal pero perché proprio non si era accorto che noi stessimo così male.

Il primo consiglio sembra banale ma non lo è: dobbiamo imparare a parlare

Il partner non è nella nostra testa, non ha doti telepatiche e, soprattutto, non è vero che non ci ama dal momento che non riesce a capire e ad accorgersi.

Dobbiamo renderci conto con un poco di umiltà che se vogliamo essere capite dobbiamo imparare a raccontare come stiamo e dobbiamo essere disposte a chiedere aiuto. Non è immediato mettersi nei panni di una donna se appartieni ad un genere diverso, se vivi il corpo e l’immagine corporea in un modo completamente differente.

Per ragioni di tipo culturale ed educativo gli uomini possono avere meno dimestichezza con le emozioni, e non possedere un linguaggio emotivo-affettivo così articolato come quello femminile.

Possono quindi essere molto sensibili ma avere difficoltà ad esprimere vicinanza ed affetto attraverso le parole.

Usano magari un canale espressivo comportamentale: magari non riescono a ”parlare” molto ma esprimono l’amore attraverso gesti di accudimento. Se ci rendiamo conto di avere istanze che l’altro non comprende non abbiamo altra via che parlare col cuore, cercando di spiegare che abbiamo bisogno di lui, spiegando cosa ci fa stare male e come l’altro potrebbe aiutarci.

Molte coppie arrivano in terapia stremate dalla dinamica appena descritta, che allontana i partner e innesca climi guerreschi.

Catturati da una spirale di accuse reciproche, dove entrambi si sentono inascoltati e fronteggiati da un individuo che vuole sempre aver ragione, dove la donna lamenta trascuratezza e l’uomo si sente continuamente criticato.

Chi ha ragione?  Nessuno!

Questa è l’unica domanda in grado di fare chiarezza ed iniziare un processo di trasformazione nella coppia: se si ha la pretesa di avere ragione, di cercare la verità, di trovare “di chi è la colpa” sicuramente andrà tutto a rotoli.

Il primo consiglio è allora quello di cambiare atteggiamento : il punto non è di chi è la colpa, piuttosto è d’aiuto esprimere cosa stiamo provando. Imparare a litigare è fondamentale: significa comprendere come non si sia uno contro l’altro ma uno per l’altro.

Cosa vuol dire litigare bene?

È passare dall’accusa “tu fai sempre questo” e/o “tu non fai mai quello” a l’affermazione “questa cosa mi fa stare male”. L’accusa mantiene la guerra (che lascia sempre dei cadaveri sul campo, fa scorrere sangue e porta a dire cose di cui poi ci si pente o ci si rinfaccia per decenni) mentre il confidare all’altro quello che fa soffrire gli comunica che ci mettiamo nelle sue mani e che chiediamo attenzione, cura, consolazione. È un modo gentile di chiedere aiuto, che stimola la cooperazione e l’accudimento. Che però devono essere reciproci, se la coppia vuol stare bene.

Passare da “tu sbagli” a “sto male, occupati di me” apre uno spazio di ascolto che valorizza entrambi gli attori, crea intimità.

Dall’accusa l’altro dovrà difendersi attaccando, rivendicando gli sforzi fatti oppure soccombere. Invece se parlo dei miei vissuti sto implicitamente comunicando che non cerco la verità oggettiva ed assoluta, incontrovertibile ma ho fiducia nel fatto che l’altro accoglierà il mio personale punto di vista, che lo terrà in considerazione perché mi vuole bene ed è interessato a quello che io provo. In fondo nella coppia questa è l’unica verità che deve interessare: dimmi come stai perché l’unica cosa importante per me è che tu stia bene. E questo deve valere per entrambi.

Il problema non sono io, ma lui!

Ma c’è un aspetto molto particolare che può riguardare la crisi di coppia, collegato alla malattia. Quando si è in crisi (e la malattia rappresenta sempre una passaggio critico dell’esistenza) ci si può difendere dall’angoscia e dalla paura “spostando” le emozioni negative al di fuori di sé, proiettandole su qualche elemento della vita: per esempio sulla coppia. In questo modo il partner diventa un vero e proprio capro espiatorio: concentro lì ogni mia frustrazione, delusione, amarezza collegate all’essere portatrice di un disturbo, e questo mi mette al riparo dal prendere contatto con il mio senso di inadeguatezza, con la paura di non essere abbastanza, con il senso di inferiorità.

Trovo in qualche modo la maniera per rassicurarmi e salvaguardare l’autostima: il problema non sono io ma è lui. È un modo per sentirsi normali, per negare l’esperienza della malattia.

Il conflitto che si innesca nella coppia drena insomma tutta la rabbia e la frustrazione della diagnosi ricevuta, fa sfogare l’amarezza. Che nasconde la paura: di essere abbandonate, di perdere l’amore, di rimanere infelici mentre l’altro potrà cercare qualcuna sana, “perfetta”. Si comprende come alcune donne diventino rabbiose e squalificanti verso i partner.

Un breve percorso di psicoterapia, individuale e/o di coppia, sblocca agevolmente l’impasse, insegnando una modalità di comunicazione non conflittuale, mediando l’espressione di bisogni ed istanze, aiutando a “tradurre” il mondo interno affinché l’altro possa comprendere senza sentirsi criticato. Insomma: fa nascere un nuovo equilibrio ed una nuova intimità.

Per non sentirsi mai più sole.

Autore: Barbara Alessio

Mi chiamo Barbara e sono una psicologa psicoterapeuta psicodiagnosta. Da quasi 25 anni accompagno le persone in percorsi di crescita, cura, sviluppo. Parlo alle donne per aiutarle nel loro cammino, per non lasciarle sole, per ascoltarle, sostenerle, sciogliere i loro dolori e spronarle a prendere in mano la loro vita e la loro salute. Psicologa con iscrizione all'Ordine degli Psicologi del Piemonte n. 1839.