La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è probabilmente il disordine endocrino più frequente nella popolazione femminile e la causa principale di alterazioni del ciclo mestruale che comportano infertilità (dovuta all’assenza ed all’estrema irregolarità di ovulazione) o comunque una difficoltà a rimanere incinte e/o a portare avanti la gravidanza. Sindrome molto complessa, mette davvero a dura prova la serenità della donna, che non solo si trova a confrontarsi con una sintomatologia diffusa che causa dolori emotivi e fisici, ma vive difficoltà e limitazioni che finiscono per riguardare il suo progetto di vita e l’armonia della coppia.
Passiamo spesso tutta la giovinezza preoccupate all’idea di rimanere incinte prima del tempo e con l’uomo sbagliato: poi finalmente sentiamo di poter fare il nido. Siamo pronte, abbiamo accanto il compagno ideale. Ma l’attesa si prolunga oltremodo, ogni mese una delusione intensa ci coglie quando diventa evidente che ancora la gravidanza è lontana. Perché magari le mestruazioni saltano, e si fanno assenti per parecchio. O sono presenti, ma noi temiamo che l’ovulazione non avvenga. Il terrore di essere infeconde ci assale. Tutti intorno a noi, intanto, fanno battute spiritose: cosa stiamo aspettando, ci dicono? E noi cerchiamo di sorridere: ma dentro ci sentiamo morire. L’ansia ci assale ed inizia il calvario delle domande. E la spirale della tristezza. Cui si aggiunge una paura specialissima, che chiude la gola: e adesso come lo dico a lui? Come la prenderà? Mi lascerà?
Oggi la medicina è in grado di soccorrere in molti modi le COPPIE che hanno difficoltà nella procreazione: perché questo è il punto. La gravidanza è una questione che riguarda la coppia, sempre, non la donna. L’infertilità oggi è trattata sotto molti punti di vista e le coppie che hanno difficoltà in questa sfera della vita (sono moltissime e per moltissime patologie o problemi, a volte di ordine squisitamente psicologico, che possono investire sia l’uomo che la donna) possono ragionevolmente aspettarsi di trovare una strada che sia giusta per loro per affrontare la cosa e cercare di risolverla. E questo naturalmente vale anche nel caso della PCOS.
Ma questo non elimina la paura che fa vivere male moltissime donne: sanno che la sindrome riguarda proprio il delicato sistema del ciclo mestruale, e interferisce con aspetto fisico, umore, benessere generale, si aspettano ostacoli nel progetto genitoriale e non sanno come parlarne al proprio compagno.
Spesso la donna rimanda. Tace. Nutre dentro di se dubbi e timori che si ingigantiscono. E anche quando il quadro è chiaro e condiviso, ed il partner è al corrente delle difficoltà, si tiene dentro la paura costante di essere rifiutata, abbandonata, considerata inferiore. Tarata. Così oltre alla fatica della malattia aggiunge l’ansia costante, il peso della ricerca spasmodica della fecondazione, la responsabilità di essere la causa dell’infelicità dell’altro e magari della fine della relazione. Si alza un muro dentro di lei, cerca di nascondere il dolore e la colpa ma perde vitalità. E davvero finisce per allontanare l’altro.
La paura di essere lasciata diventa una profezia che si autoavvera: senza rendersene conto, infatti, è lei ad allontanarsi, a diventare scostante, quasi arrabbiata. Sempre irritata e svuotata si chiude sempre di più: e diventa lei quella che rifiuta l’altro, che lo abbandona. Convinta di essere “inutile”, mette in atto una punizione verso se stessa e sabota la coppia. E non di rado il rapporto si logora al punto da esitare nell’interruzione, conclusione dolorosa che la donna vive come conferma della propria inutilità…
La maggior parte dei compagni di fronte all’annuncio della bassa fertilità condivide con la donna il dolore di un progetto a rischio (ovvero quello di diventare genitori) ma conferma il proprio amore e rassicura l’altra che questo non cambierà nulla, che è pronto a fare di tutto ma che se i figli non arriveranno andrà bene lo stesso. Ma la donna non ci crede quando è lei ad avere problemi. Si sente troppo in colpa. Si sente una fallita. Si fa completamente condizionare.
Continua ad alimentare la credenza di avere rovinato la vita al partner, comincia a pensare che l’altro rimanga per pena o per dovere o perché si sentirebbe in colpa lasciandola. Si sente vittima o vive l’altro come vittima. Avvelenando ogni momento insieme, arrivando persino a pensare che fare l’amore sia inutile, che la vita quasi non abbia più senso. Ma come possiamo avere paura di farci vedere per chi siamo davvero dalla persona con cui abbiamo scelto di intrecciare la vita? Di mischiare il destino trascendendo i limiti fisici del corpo? Dobbiamo legittimarci a farci vedere “davvero” nude: per quello che siamo.
È quella la magia dell’amore autentico: liberarci dalla paura del giudizio. Se continuiamo ad allevarla, siamo noi stesse ad impedirci di amarci. Il problema non è se l’altro ci accetta ma è se noi siamo capaci di accettarci. Questa è la base dell’amore: libertà dalla paura dello sguardo dell’altro.
La paura di dire che abbiamo problemi di fertilità è un ostacolo che dobbiamo chiederci di superare. E’ figlia di un’idea davvero povera dell’amore, quella che lo vede come un “premio” che si vince se si è abbastanza belle, comprensive, mansuete, sane. Insomma: se si è “abbastanza”. Altrimenti si viene scartate. Ma l’amore è questione di un incontro. Un incontro magico che si sottrae a calcoli e previsioni, a misurazioni statistiche. Il mito che lo costella è quello platonico della sfera tagliata a metà: ogni parte cerca quella perduta per tornare a ricomporre l’unità.
Ogni individuo ha qualcuno che lo completa, che è il giusto incastro. Non è fallato nessuno: non importa come siamo, ogni individuo è adatto all’amore, non solo i più fortunati. Ecco: è il sistema che si crea nell’unione a far funzionare la coppia. Perché ognuno di noi nella relazione attiva parti di sé che senza l’altro rimarrebbero inespresse, mute, disattivate, spesso a noi stessi sconosciute. L’interazione crea un funzionamento complesso, che richiede l’altro per essere alimentato. E non è certo questione di una caratteristica in più o in meno. È l’insieme, a tenere o meno.
Perché dobbiamo pensare che l’altro ci rifiuterà? Che ci menta quando ci guarda e ci dice che comunque rimarrà con noi? Che ci ama ugualmente? Perché non diamo credito all’altro? Ci ha scelto stregato dalla complessità della nostra personalità, da un insieme di fattori che nemmeno lui sa dire. Innamorarsi è un mistero che nessun logaritmo è in grado di prevedere, nemmeno quello di Facebook!!! Il partner si è innamorato di noi senza tenere minimamente in conto la questione della maternità.
Il desiderio di genitorialità e venuto dopo, è cresciuto con la coppia. Ma non può essere l’unico motivo per cui una coppia sta insieme: nessuno ha la garanzia di averli, anche se sano, e poi i figli “nascono dalla coppia”, sono un loro “effetto”. Il figlio non è la coppia. Viene dopo, la coppia viene prima e deve avere sempre un sua identità e specificità a parte, che non coincide con la genitorialità. Una coppia dovrebbe essere sostenuta da un patto di condivisione della vita in tutti i suoi aspetti: in fondo è questo che recita la formula del matrimonio cattolico.
Ma al di là della religione, stare insieme è una scommessa per fare un pezzo di strada insieme affrontando gli imprevisti del cammino, bei panorami ed incontri felici ma anche ostacoli, lutti, rovesci, conflitti, malattie. La coppia non dovrebbe nascere sulla base di ciò che l’altro ci garantisce, altrimenti è basata su un calcolo utilitaristico. Il patto non può garantire nulla se non che l’altro ci starà accanto in modo autentico.
E se il progetto di vita insieme dovesse non reggere al presentarsi di questa difficoltà, beh, vuol dire che l’incastro non regge alla vita. Vuol dire, tenendo a mente il mito, che non è quella la persona in grado di completarci. Perché non regge la complessità che portiamo, la nostra forma speciale. Se ha bisogno di una forma diversa, non è che noi siamo fallate: piuttosto, è l’accoppiata che non funziona.
Un figlio è della coppia. Non è della donna o dell’uomo. Il dolore e la frustrazione di non poterne avere riguarda entrambi. Non è solo nostro. Va affrontato come tutti gli altri problemi della coppia: in due. Piangendo in due, cercando soluzioni in due, elaborando il lutto in due, insieme. Ricostruendo insieme un progetto di coppia alternativo a quello, se è il caso. Non siamo pezzi metallici, utili solo se liberi da falle di sistema.
Non siamo in una catena di montaggio: siamo in una relazione affettiva, di mutuo scambio, alla ricerca di un senso comune. E saranno davvero tanti gli eventi della vita da affrontare insieme, che capiteranno ad uno dei due ma che ingaggeranno entrambi. Perché questo significa essere in coppia: altrimenti si è solo due persone accostate: non una coppia.
Nessuno ci insegna a vivere in due. Il sistema scolastico si incarica di insegnare moltissime materie ma non affronta mai le competenze emotive ed affettive che sono poi quelle che ci servono nella vita di relazione, in famiglia, nell’ambito sociale e professionale. Li siamo tutti al “fai da te”, dobbiamo imparare dall’esperienza. Invece un accompagnamento al dialogo, alla comunicazione, alla gestione del conflitto, alla creazione dell’intimità ci aiuterebbe parecchio, ci eviterebbe molto dolore, ci darebbe gli strumenti per comunicare e sostenere i sentimenti.
In azienda lo si fa da parecchi decenni: le equipe di lavoro, gli staff aziendali, ricevono moltissima formazione in questo senso. Si sa che così si lavora meglio, si collabora più proficuamente, si diventa più partecipativi e la soddisfazione aumenta. Ma nessuno pensa che in coppia e in famiglia ci sarebbero gli stessi vantaggi ad imparare a parlarsi. A volte la coppia ha bisogno di aiuto per parlarsi; o per elaborare un lutto. Per rinsaldare il legame dopo avvenimenti negativi. Ma si può chiedere aiuto. Un aiuto che fa stare bene.